Sostenibilità, un imperativo così categorico per la ripresa post-covid che anche la grande distribuzione inizia a fare distinguo sempre più ricorrenti e significativi. Ce lo ricorda un colosso come il francese Carrefour (quasi 100mila dipendenti sparsi per una trentina di Paesi) con la promozione, in questo 2020, della prima “Settimana della transizione alimentare“, svoltasi dal 30 ottobre all’8 novembre scorsi.
Durante questi dieci giorni di vendita, all’interno dei supermercati Carrefour sono state allestite apposite aree dedicate, all’interno delle quali venivano segnalati ai clienti prodotti selezionati per le loro caratteristiche di sostenibilità. L’iniziativa ha dato così seguito visibile a un “Patto di impegno e responsabilità” che il gruppo ha condiviso con 19 brand per lo più multinazionali – fra cui gli italiani Barilla, Findus e San Pellegrino – ammessi a questi stand perché in grado di dimostrare determinati standard rispettati per quanto riguarda packaging, imballaggi, collaborazioni con partner affidabili sul piano della tutela ambientale.
E’ un segnale che ci dice come l’intero mercato sia ormai permeato da una domanda ovunque diffusa di sostenibilità, compreso quel settore distributivo che non può più limitarsi a “passare la merce” dai propri magazzini agli scaffali dei supermercati senza svolgere un ruolo attivo nel chiarire a miliardi di consumatori l’importanza di valutare le modalità produttive di un alimento, oltre alla lista dei suoi ingredienti.
Ormai quasi tutti i player del mercato globale sono chiamati a competere non solo sul “cosa fanno”, ma anche sul come lo fanno, un ambito a cui per ora si sottraggono solamente i colossi delle telecomunicazioni inevitabilmente tutelati dai loro esorbitanti profitti all’interno di una sorta di bolla sovranazionale. Al contrario, i grandi brand della moda (settore fra i più inquinanti al mondo se pensiamo “solo” all’85% dei vestiti destinati a discariche di cui si legge nel sito della startup Rifò) sono sottoposti a controlli sempre più frequenti e puntuali non solo da parte delle istituzioni, ma anche dei media. E’ una sorta di Bibbia del consumatore di moda come il periodico Vanity Fair a dedicare un lungo servizio pubblicato lo scorso settembre, e firmato da Priscilla De Pace, a tutti gli strumenti oggi a disposizione per compiere scelte consapevoli all’interno di una boutique o di uno “store”. Sono negozi dove sempre più clienti si presentano dopo avere consultato app come Good On You, creata per segnalare quali scelte caratterizzano una griffe in merito a tre categorie: Ambiente, Persone, Animali.
Su un altro versante, blog autorevoli come Fysi, collegato alla piattaforma Ener2Crowd, finalizzata al crowdfunding per progetti di Green Economy, mettono a fuoco come i grandi brand si orientino verso molteplici soluzioni sostenibili. Qui si apprende perciò che perfino nel settore dei viaggi aeronautici, altro potente fattore di inquinamento globale, un colosso del volo low cost come l’irlandese RyanAir abbia investito 20 miliardi di dollari in soluzioni che consentano di risparmiare il 16% di carburante e il 40% di emissioni acustiche. Tornando alla moda, un marchio simbolo del Made in Italy, Gucci, è in grado di certificare l’utilizzo di materie prime da coltivazioni non intensive, dove cioè non si impiegano fertilizzanti e pesticidi, mentre la Ferrero ha dato vita alle filiere produttive Ferrero Farming Values, caratterizzate dal miglioramento delle comunità rurali fornitrici della materia prima con cui produrre Nutella e altri dolciumi al cioccolato.
Sono tutti segnali che inducono a sperare in un’unica ripresa globale possibile dopo la pandemia, basata su una strada senza ritorno che si chiama sostenibilità.
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